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TeoriaYoga

Introduzione allo Yoga Darshana, secondo Raphael

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Introduzione allo Yoga Darshana,
secondo Raphael

Il testo che segue è tratto da Patañjali, La via regale della realizzazione (Yogadarshana),
traduzione dal sanscrito e commento di Raphael, Roma, Asram Vidya, 1992, pp. 9-26

Yoga

In questi ultimi anni si è parlato spesso, a proposito e a sproposito, di Yoga; anzi, questa parola è stata talmente profanata che oggi se ne diffida persino, anche se poi non si sa esattamente che cosa veramente voglia dire.

La parola Yoga deriva dalla radice yuj che denota l'”atto di aggiogare” e, nel nostro caso specifico, risolvere le turbolenze mentali e fisiche in modo da ottenere una perfetta unità coscienziale la quale va oltre i limiti del pensiero, quindi di là dalle categorie del tempo-spazio. Vi sono, ovviamente, molti tipi di Yoga, dall’Hatha all’Asparsha metafisico. Quello che stiamo trattando è il Raja yoga codificato da Patañjali, quello regale (raja) che porta alla reintegrazione. Lo Yoga non è una religione, come comunemente si intende questo termine, è invece una scienza, la scienza che studia l’ente nella sua totalità; è anche filosofia perché offre una visione della vita e della natura. In quanto scienza di ordine sperimentale, quindi è eminentemente pratico; in quanto filosofia è teoria, per cui esso consiste di teoria e prassi.

Lo Yoga, come qualunque Dottrina tradizionale, non cerca di convincere nessuno, non impone ad alcuno le proprie convinzioni Filosofiche e la propria prassi; vive e si esprime nella dignità di ciò che è. Se qualcuno ne ha un concetto errato e perché –soprattutto in Occidente– se ne è fatto una semplice professione, un mercato, una parodia, degradando ciò che è sacro, per quanto queste siano pur sempre eccezioni.

Alcuni poi, per semplice spirito di contraddizione, possono denigrare ciò che non comprendono; altri danno giudizi per “sentito dire”, senza avere nozione o conoscenza diretta della materia; altri poi –per interesse di parte– hanno le loro ragioni per denigrare; taluni, avendo paura del “diverso”, del nuovo, della stessa sana ricerca –psicologica, filosofica, ecc.– fuggono e cercano di far fuggire altri che si lasciano convincere per gli stessi motivi; altri ancora sono solo beghini, bigotti, in qualunque campo dell’attività umana, e temono il “diverso” anche perché pensano ingenuamente di possedere la verità assoluta; altri non hanno alcuna istanza di nessun genere, vegetano soltanto e naturalmente non possono ammettere che alcuni si avviino per qualche ricerca; altri vivono solo di istinti-sentimenti-passioni e quando vedono che un certo tipo di ricerca può frustrare la loro condizione psicologica temono, si ribellano e “condannano”; altri, essendo aggrappati al loro “io” bambino, fuggono per spirito di autoconservazione.

Gli individui vivono a diversi gradi di evoluzione, di sviluppo intellettivo e coscienziale, e spesso è difficile creare rapporti, non perché si è beceri, ma perché si è su due lunghezze d’onda diverse, si vive su due piani opposti, su stati vibratori differenti. E ciò può capitare senz’altro nello stesso nucleo familiare, fra fidanzati, compagni e amici.

Quale può essere, dunque, l’atteggiamento del ricercatore verso il mondo sociale o l'”inconscio colleltivo”? Diremo di estremo riserbo, possibilmente di silenzio; l'”inconscio collettivo” è pressato da certe esclusive e peculiari necessità: lavoro per vivere, famiglia per evitare la solitudine, acquisizione di cose materiali, divertimento, negazione di ogni tipo di ricerca che non sia finalizzata a scopi peculiarmente materiali. L'”inconscio collettivo” non vive, ma si lascia vivere; non crea, ma dipende; non pensa, ma si lascia pensare. Esso è un’enorme sedimentazione, incrostazione, detrito di credenze, opinioni, fideismi, emozioni, passioni, interessi materiali e sensoriali, convinzioni non sorrette dalla ragione, cose queste che si perpetuano da millenni e che sono sovrapposte alla pura intelligenza. Un’altra caratteristica dell'”inconscio collettivo” è che la sua credenza (pístis per Platone), e persino la semplice immaginazione (eikasia), è elevata a verità assoluta, quindi esso è dogmatico, e chi la pensa in modo diverso è anche deriso, spesso combattuto. II nuovo, il diverso per l'”inconscio collettivo” (e naturalmente per gli enti che vi soggiacciono) rappresentano una minaccia, per cui si difende nervosamente, a volte violentemente. Psicologicamente si può dire che sono le difese dell”‘io” il quale si sente spaventato e minacciato nei riguardi della sua credenza, alla sua opinione. Uscire dal proprio alveo consolidato non è facile, né è dei più.

Un qualunque esponente di un nucleo familiare che esca un po’ dal solito ménage consolidato può essere rienuto “anormale”.

Il “gregge” impone determinati comportamenti, e chi vuole uscirne deve fare molta attenzione; è stato sempre così nella storia dell’umanità. Il “diverso” viene normalmente visto con sospetto e, quando è possibile, anche neutralizzato. Gesù afferma: «Appo Iddio i savi sono pazzi e i pazzi sono savi», e la stessa Bhagavad Gita recita: «Ciò che è giorno per il saggio e notte per l’ignorante».

Può sembrare veramente strano e insolito che la ricerca, qualunque essa sia, anche quella della verità filosofica, spirituale, psicologica, ecc., il vivere conforme a certi principi che esulano dal comune opinare (doxa), l’affinamento di sé non debbano essere apprezzali dai più, purtroppo è così e bisogna arrendersi all’evidenza.

L’uomo pone sempre le sue speranze nell’oggetto (apparenza) lontano, anziché trovare nel suo ambito più immediato il sostanzialmente vero. Dice Pindaro: «La categoria più inconcludente è tra gli individui e quella di coloro che denigrano ciò che è loro vicino per rivolgersi verso ciò che è lontano, lasciando che le loro speranze irrealizzabili inseguano fantasmi».

D’altra parte, quel sincero ricercatore che sente una precisa “vocazione” e un’autentica direttiva coscienziale non può non procedere. Tradire gli altri non è lecito, ma tradire se stessi è suicidio.

Quanto si è detto è solo una semplice disamina di certi stati psicologici sia individuali sia appartenenti, secondo la psicologia, all'”inconscio collettivo”, e come tale va considerato e meditato. D’altra parte non abbiamo detto niente di nuovo, tutto ciò è noto a filosofi, psicologi e pedagoghi; noi abbiamo cercato di metterlo solo in evidenza.

A chi è essenzialmente indirizzato lo Yoga? A coloro che, per esperienza diretta, per intuizione superconscia, per fede nel principio di trascendenza, per maturità coscienziale, per sete di ricerca della verità, ecc., possono sentire la “chiamata” alla comprensione di sé. Lo Yoga è la scienza del conoscersi per Essere. Lo Yoga porta l’ente a ritrovarsi unità, mentre l’individuo in genere è molteplicità, dicotomia, conflittualità. Nel suo vivere tra pensiero e azione v’è sempre contraddizione, spesso opposizione; la coscienza viene lacerata dall’irrequietezza delle energie psico-fisiche causando anche stati paranoici e nevrosi di varia natura. Il Raja yoga colma le scissure, integra il mondo della dualità abbracciando, con un colpo d’ala, la sfera del sensibile e dell’intelligibile. Il Raja yoga, perseguito con lealtà e vocazione, svela la Beatitudine e la Pienezza che sono della pura Coscienza, di là da ogni oggetto-evento di ogni ordine e grado. Dal desiderio appropriativo ed egoistico (amore di sé) lo Yoga di Patahjali porta a svelare l’Amore che si dona, si offre; Amore che non è debolezza, passività o passionalità, ma comprensione sapiente e solare.

V’è un’altra considerazione da fare ed è questa: alcuni possono pensare che solo la Tradizione orientale sia eminentemente pratica, realizzativa, interessata più al Soggetto ultimo che all’oggetto formale, più diretta alla coscienza che all’erudizione mentale fine a se stessa. Ciò però può essere molto riduttivo. In Occidente vi è stata sempre una Tradizione iniziatica la quale, per essere tale, si è proposta la trasformazione effettiva, pratica e vitale dell’ente.

Quella antica, per esempio, era una filosofia di ordine realizzativo, trasformante; aveva come finalità non la semplice speculazione concettuale, ma la realizzazione di uno stile di vita, di uno stato di coscienza. La dialettica filosofica era e dovrebbe essere un preciso processo di liberazione dell’Anima dalle illusioni mondane, dalle proiezioni dianoetiche e dai vari piaceri sensoriali; proponendo essa una visione del vero essere che è anche autentico Bene. Lungo il tempo, però, con la prevalenza della concezione materialistica e positivista, tale concezione è venuta a sfumarsi fino a perdere la stessa essenza del filosofare per essere. Nell’epoca moderna asserire di vivere, di esprimere coerentemente la filosofia di un Parmenide, Platone o Plotino potrebbe sembrare anacronistico, per cui quei pochi che vogliono perpetuare la “visione di vita” della Tradizione filosofica occidentale (l’Oriente direbbe: jñana marga = via della Conoscenza, quella che la dea propone a Parmenide) devono trovarsi in circoli chiusi e nel silenzio.

Così, il Raja voga, per quanto poggi su una visione filosofica di vita, è eminentemente pratico, e il suo contesto operativo si sviluppa in cinque sequenze che abbracciano l’interezza espressiva dell’ente.

Individualità samsarica

1. Regole e condotta etica di vita.
Purificazione delle potenze.

Preliminare.
1° e 2° mezzo o anga

2. Posizione (asana) e pranayama.
Purificazione del corpo pranico vitale.

Fisico-pranico.
3° e 4° mezzo

3. Astrazione dai sensi.
Inizio del rientro in sé della Coscienza.

Sfera emotiva.
5° mezzo

4. Rieducazione psichica
e controllo della mente.

Sfera mentale.
6° e 7° mezzo

Purusha immortale

5. Unità isolata
Samadhi

Coscienza-purusha.
Trascendenza dell’individualità

Possiamo ancora dare una sintesi del contenuto dei quattro capitoli (pada) dell’opera.

Pada I

1-4 Definizione dello Yogadarshana.
5-11 I cinque tipi di modificazione mentale effetti che possono produrre (dolorosi e non dolorosi). Loro classificazione.
12-14 Soppressione delle modificazioni mentali mediante l’abhyasa.
15-16 L’efficacia di vairagya (distacco consapevole).
17-18 Samprajnata e asamprajnata samadhi.
19 Varie possibilità di attuazione del samadhi.
20 Gli elementi basilari del samadhi.
21-23 Il samadhi si concede a chi ha una forte aspirazione, pratica diligentemente i mezzi opportuni e si concede alla Divinità.
24-28 Viene trattata la Divinità (Ishvara)
29 Con la pratica di questi mezzi scompaiono gli ostacoli e la coscienza si ritrae all’interno di sé.
30-31 La fonte della distrazione della mente. Viksepa = esteriorizzazione della mente. Le qualità che consentono di riconoscere la mente distratta.
32-39 Mezzi per eliminare gli ostacoli del viksepa.
40 I poteri psichici (siddhi) e loro limiti.
41 Si espone l’unita di conoscente, cognizione e conosciutu.
42 Savitarka samadhi.
43 Nirvitarka samadhi.
44 Savicara e nirvicara.
45-46 Gli oggetti sottili si estendono fino allo stadio alinga: quindi tutti i pratyaya che possono essere meditati sul piano della prakriti. Questi oggetti grossolani e sottili fanno parte della meditazione con seme.
47-48 Solo nello stato nirvicara si ha la “luce” (buddhi universale).
49 La conoscenza empirica differisce da quella intuitiva.
50 Sabija samadhi (con seme).
51 Nirbija samadhi (privo di serne).

Pada II

1 I preliminari dello Yoga (kriya): tapas, svadhyaya e isvarapranidhana.
2 I preliminari dello Yoga (kriya) conducono all’attenuazione dei klesha.
3-9 Teoria dei klesha e loro enumerazione. Loro fonte causale e l’avidya (ignoranza della propria reale natura). Definizione di avidya.
10-11 Metodi di soluzione.
12-15 I klesha ci conducono in ogni sorta di esperienze conflittuali, sono generatori di karma e rinascita. Per il Saggio discriminante l’esperienza è conflitto e miseria.
16 La miseria futura può essere evitata.
17 Occorre evitare l’unione o assimilazione del veggente col visibile.
18 Che cos’è il visibile.
19 I quattro stadi dei guna.
20 Il veggente è pura coscienza.
21, 23 Il visibile è solo un mezzo non un fine.
22 Per il Liberato vivente il visibile è come non esistesse più.
24 Causa dell’identificazione col mezzo di prakriti e l’oblio del Sé.
25-28 Soluzione dell’identificazione.
29-55 Spiegazione degli otto mezzi Yoga.

Pada III

1-15 Continuazione della spiegazione degli otto mezzi fino all’ottavo mezzo del samadhi. Che cos’è il samyama.
16-56 Elencazione delle siddhi che si ottengono facendo samyama su determinati cakra. Facoltà di percezione e organi di senso pranici. Dominio sui pañca-bhuta. Il non attaccamento alle siddhi porta al kaivalya (III, 51).

Pada IV

1 Le siddhi sono il risultato della nascita, delle droghe, dei mantra, dell’ascesi e del samadhi.
2-3 Solo ciò che e in potenza può manifestarsi. Le menti artificiali possono essere create da quella naturale.
4-6 Le menti artificiali possono essere creatte da quella naturale
7-11 Nascita dei samskara, del karma, dei desideri, ecc. Loro meccanismo operativo. Soluzione della loro causa (avidya).
12-15 Tesi della percezione mentale e del libero arbitrio.
16 Superamento del solipsismo.
17-21 La mente è solo un veicolo relativo e il purusha è testimone del movimento mentale.
22 Autocoscienza della propria natura.
23-25 Natura di citta, intesa in senso ampio e delle vasana. Tutto ciò che è manifestato dev’essare trasceso.
26 Viveka acquista il suo più alto significato quando discerne ciò che è da ciò che non è.
27-28 Possono esserci pratyaya anche sul confine tra l’Essere e il non-essere. Occorre eliminarli come e avvenuto con i klesha.
29 Chi è capace di portare vairagya al suo estremo limite, anche nei confronti di sublimi paradisi, attinge il dharma-megha-samadhi.
30 Segue così la libertà da tutti i karma e klesha.
31 Differenza tra conoscenza sensoriale e illuminazione.
32 I guna possono cessare di irretire la coscienza incarnata.
33 Teoria del tempo.
34 Definizione del kaivalya.

L’incipit del Capitolo I

Samadhi pada

1. [Viene] adesso l’esposizione dello Yoga.
2. Lo Yoga è la sospensione delle modificazioni della mente (citta vritti).
3. [Quando ciò è stato attuato] allora il veggente riposa nella sua essenziale natura.
4. Nelle altre modalità [quando il veggente non è fondato su se stesso] vi è identificazione con le modificazioni (della mente)

Questi quattro sutra compendiano tutta l’essenza e la finalità del Raya yoga. «Lo Yoga è la sospensione delle modificazioni della mente», vale a dire, lo Yoga consiste nel portare a soluzione il “movimento conformato” (maya), risolvere il suono nel senza suono, trascendere il divenire psichico, portare la coscienza a stabilizzarsi in se stessa, con se stessa e per se stessa; lo Yoga è realizzarsi come Essere-purusha senza sovrapposizioni concettuali o proiezioni mentali. Lo Yoga è risolversi come Essenza strappandosi dalla sostanza-prakriti. Quando la coscienza non riposa su se stessa vuol dire che si assimila al movimento psichico. Un istinto, un’emozione e un pensiero sono movimenti energetici qualificati che coinvolgono e costringono la coscienza-purusha. Questo coinvolgimento, che vela e altera, porta nel conflitto e nel dolore. L’affrancamento dalle modificazioni intraindividuali e universali conduce al Punto al centro, al parapurusha.

Con il termine citta si designa la caratteristica causale del manas, la totalità di ciò che chiamiamo contenuto della mente; è la sostanza formale psichica; in essa risiedono anche i samskara (semi subconsci). Citta in pali significa “atteggiamento”, è la somma totale degli atteggiamenti che si ripetono.

Con vrtti, invece, si designano le modificazioni o alterazioni del citta. Quando la mente proietta una forma (pensiero concettuale formale) questa prende il nome di vritti. Citta può essere impulsato da stimoli interni subconsci (samskara) o da stimoli esterni. Sotto questa pressione, la coscienza risulta non solo oberata da contenuti di svariata natura, ma profondamente alterata, scossa, modificata, perdendo la propria centralità e la limpidezza. Il processo di soluzione delle vritti avviene normalmente in tre stadi: rallentamento, controllo o dominio, soluzione o trascendenza. Inoltre, è bene considerare che la mente è il soggetto e il mondo l’oggetto, ma dietro la mente-soggetto v’è il purusha, quale riflesso incarnato, il quale è di là dal soggetto-oggetto, dall’io-mondo, potendoli integrare e trascendere. Tutta la sfera relazionata, come tempo-spazio, io-mondo, Dio-universo, è costituita dalle categorie che nascono da quel soggetto il quale può esistere se posto in rapporto, appunto, con qualcosa. Polarità gnoseologica e sostanziale.

La mente non è autoesistente e autoilluminata, essa è non conscia in sé e per sé, è il purusha che le dà vita e movimento. Quindi, il purusha è il testimone (saksatkara) del movimento della mente e del corpo. La mente e la “materia” hanno in comune, e come unico substratum, la coscienza purushica. La mente così è solo un mezzo mediante cui si percepisce l’oggetto, ma l’Uomo vero può anche fare a meno sia del mezzo che dell’oggetto perché è causa sui.

Il non-realizzato si conosce tramite il suo strumento il quale funge da riflettore, mentre la realizzazione consiste proprio nell’essere consapevoli della propria realtà purushica senza alcun intermediario. Sotto la prima prospettiva sembra che la mente sia il soggetto testimone ultimo, ma non è così, essa riflette solo il testimone, come lo specchio riflette l’immagine dell’ente.

Mediante il discernimento (viveka), il purusha inizia a comprendere il funzionamento della mente e la sua natura fino a considerarla non più causa prima, ma semplice mezzo operativo.

Un fatto è bene mettere in chiaro per lo studioso occidentale; chi segue lo Yoga, o una via realizzativa orientale in genere, si è imbattuto di certo nella parola “coscienza”; anzi, la maggior parte delle scuole afferma che l’ente, nella sua più profonda espressione, non sia altro che Coscienza. Vi possono essere discepoli -e scuole iniziatiche- che non riescono a concepirsi coscienza per la particolare forma mentis culturale in cui vivono. La letteratura occidentale, poi, considera l’uomo come un “io” che si determina in un mondo di fenomeni, ma non lo presenta mai come Coscienza inalterata. Tralasciando gran parte di quella cultura per la quale la coscienza rappresenta un semplice epifenomeno della struttura fisica materiale, la Tradizione iniziatica occidentale ha definito l’ente soprattutto mediante i suoi attributi come quello di volontà, intelligenza, attività, potenza, ecc. Anche in quest’ultimo ambito si può scoprire la mancanza di un riferimento preciso alla coscienza. Questa rimane pur sempre in funzione di un contenuto di varia natura, mancando il quale non v’è altresì coscienza. Non si riconosce che la causa può anche sussistere indipendentemente dall’effetto o da un attributo incidentale.

Se ci riferiamo alla Tradizione orientale, e particolarmente a quella indiana, la coscienza riveste un fattore essenziale, anzi è l’inizio e la fine della ricerca. Precisiamo ancora che lo Yoga di Patañjali è uno dei sei darshana indù in linea con la Tradizione vedico-upanishadica.

Tutte quelle qualificazioni (volontà, intelligenza, ecc. ) non sono altro che sovrapposizioni o attributi della coscienza la quale è ipseità. Le Upanisad affermano: l’atman-brahman è pura coscienza (caitanya); e caitanya-saksin; il Sé, in quanto coscienza, è testimone degli stati o condizioni sovrapposti, compresi gli stessi corpi-veicoli di manifestazione; e, ancora, caitaniya-svarupa, essenza di pura Coscienza. Lo stesso “io” (ahamkara) di cui è intessuta la cultura occidentale, e spesso anche quella esoterica, non è altro che una sovrapposizione (adhyasa) alla pura Coscienza.

La coscienza, che normalmente affermiamo allo stato di veglia e oltre, rimane comunque un mero riflesso della Coscienza assoluta o purusha, quindi quando parliamo di purusha che s’identifica a… vogliamo riferirci a questo riflesso.

Gaudapada e Shamkara, nella Mandukya upanisad, hanno sviluppato tale tema e hanno concluso che ogni cosa appare e scompare dall’orizzonte della nostra coscienza, ma non quest’ultima. Se prendiamo i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo senza sogni constatiamo che allo stato di veglia siamo consapevoli del mondo oggettuale fisico; nello stato di sogno sparisce quel mondo, ma non sparisce la coscienza perché questa è consapevole degli oggetti di sogno, e ciò è un’evidenza; nello stato di sonno senza sogni sparisce l’oggetto di sogno, ma non sparisce la coscienza; difatti possiamo dire di essere stati consapevoli di non aver sognato o avuto esperienze di alcun genere. Come si può notare, l’oggetto, nelle sue varie configurazioni e nei suoi gradi di realtà, può esserci ma anche non esserci, eppure non scompare quella coscienza che è appunto consapevole della presenza e dell’assenza dell’oggetto, come è consapevole della presenza o assenza di un’idea-concetto, di un’emozione e dello stesso io empirico.

Se studiamo a fondo i meccanismi psicologici percettivi, constatiamo che, in linea di massima, ci conosciamo tramite gli attributi della coscienza, non per via diretta di consapevolezza. Gli attributi fungono da specchio e in esso ci riflettiamo e ci conosciamo; è sotto questa prospettiva che sosteniamo: “Io sono volitivo”, “sono emotivo”, “sono mentale”, “sono autoaffermativo”, “sono debole”, ecc. Secondo lo Yoga noi ci conosciamo mediante i guna (qualità energetiche). È tendenza dell’ente definirsi come : “lo sono questo o quello“, il “questo” o “quello” sono attributi-qualità della coscienza, eppure c’è uno stato in cui si è ciò che si è senza alcuna aggiunta qualitativa. Questa viene dopo il “ciò che si e”, ma purtroppo, nella totale identificazione, arriviamo a considerarci non più “sono ciò che sono”, ma il semplice “questo”, risultando con ciò alienati (II, 6).

Il riflesso di coscienza incarnato -quella consapevolezza, cioè, che ci fa riconoscere come enti con un nome e una forma e collocati in un tempo-spazio ben definito- quando si ricongiunge alla sua fonte si realizza in ciò che il Vedanta denomina atman, la cui natura è pienezza (purnata), e lo Voga chiama purusha. Poiché questo stato non può essere descritto con parole, essendo appunto fuori del quadro di riferimento qualitativo, dev’essere direttamente realizzato; diremo, è un fatto di attualizzazione coscienziale. Possiamo considerare che il processo realizzativo Yoga consiste nel porsi in tale stato purushico, trascendendo il mondo dei nomi e delle forme o mondo di maya; o, meglio, integrando nella pura coscienza la dualità o dicotomia del samsara.